Stamattina ho chiuso dietro le spalle, per l’ultima volta, la porta di questa casa: l’ho svuotata, staccato tutte le foto, ho raccolto le mie cose e le ho gettate in valigia. Poi ho chiamato un taxi per andare alla stazione.
Ora sono qui, il treno sta arrivando sui binari: salgo, trovo il mio scompartimento, mi siedo e butto la testa fra le mani. Ripenso a Klemi, a quello che ho lasciato, lo stomaco si chiude, non ho nemmeno fatto la barba, mi prude il viso, mi gratto. Guardo fuori dal finestrino. Vedo la neve all’orizzonte, prati che si rincorrono, mentre il treno che mi sta riportando alle montagne dove sono cresciuto, corre veloce sui binari.
Sospiro, passandomi le mani tra i capelli, ignorando la ragazza seduta di fronte a me, che continua a guardarmi, che vorrebbe, forse, parlarmi.
Ripenso a quando dissi a mio nonno che all’università avevo conosciuto un brillante stilista: lui rimase in silenzio ad ascoltarmi, terrorizzato che potessi intraprendere la carriera di mia madre. Ma io non volevo continuare a fare il modello e non volevo nemmeno morire di overdose, come aveva fatto lei. Gli raccontai che Pierre Lacroix non era un tossicodipendente, anzi. Aveva le dita martoriate, sì, ma dalla macchina da cucire. Era uno stilista e aveva grandi ambizioni. In città aveva aperto un negozio di abbigliamento e fondato un suo marchio che aveva chiamato, Jolie. “Pierre vuole aprire un altro negozio Jolie a Parigi. Io mi occuperò del lancio. Saremo soci”, aggiunsi.
Mio nonno mi prese le braccia. Mi tirò su le maniche fino ai gomiti, scrutandone attentamente l’incavo, roteando gli occhi a destra e sinistra. Poi acconsenti senza parlare, lasciandomi andare verso la strada che avevo scelto.
Ricordo quando, anni dopo, scolando svariate bottiglie di Dom Perignon d’annata, accettai l’incarico che Pierre da un po’ di mesi mi prospettava: portare il marchio Jolie, ormai un successo in Francia, all’estero. Precisamente, in Italia.
Il primo punto vendita lo aprimmo a Genova, perché Milano era troppo cara, troppo complicata e troppo snob. Ed ora, diciannove anni dopo quella sbornia memorabile, sto lasciando Genova, sto lasciando Jolie e sto lasciando Klemi.
Il viso di Klemi mi appare nella mente, interrompe i miei pensieri, mi schiaffeggia il volto. Ho voglia di fumare, ma qui sul treno non si può. Mi alzo, vado in corridoio, mi chiudo in bagno, accendo una sigaretta, do due tiri, lascio che il fumo mi riscaldi i polmoni.
Klemi, Klemi, Klemi. Sono stato uno stronzo, perché non ho avuto il coraggio di dirti in faccia che me ne sarei andato.
“Merda!”, urlo tra me, stringendo i pugni, buttando la cicca nella tazza del water.
Poi ritorno al mio scompartimento, mi siedo, butto gli occhi fuori dal finestrino, ripensando agli attimi importanti della mia vita, come fanno i vecchi. La ragazza di fronte a me continua a guardarmi, devo sembrargli isterico, ma accenna un sorriso, sta per parlare, ma la interrompo prima che inizi: prendo il cellulare dalla tasca, apro WhatsApp.
“E così te ne vai”, c’è scritto. L’ultimo messaggio che mi ha scritto Klemi. Al quale ho risposto con un monosillabo codardo. “Già”. Premo sull’icona del suo profilo, allargo la foto con le dita. Mi soffermo sui suoi occhi color nocciola, picchiettati di giallo. Un paio d’occhi senza filtri, due catini trasparenti come acqua.
Avevamo bisogno di personale, e, all’epoca dell’apertura del primo punto vendita Jolie e Genova, toccava a me anche fare i colloqui. Erano le sette di sera, ed entrò questa ragazza svampita, con un paio di scarpe da ginnastica, i jeans strappati e un maglioncino infeltrito tinta senape. Amanda, la store manager, inorridì, e mi lanciò uno sguardo di disapprovazione. La cosa peggiore era che portava con sé un orribile cane nero e bianco e la sua voce squillava, srotolando le parole come se fossero state monetine.
“Sono qui per il colloquio di lavoro” disse, “Possono entrare i cani in negozio, vero? Perché mi spiaceva lasciarlo a casa. Ah. Mi scusi, lei è il signor…?”
“Signor Damien Dellaroy”, enunciai, alzando gli occhi su di lei e sul cane.
“Io sono Clementina Caralli. Mi chiami pure Klemi. Ah. Lui è Rocky”, aggiunse, indicando l’essere peloso e sedendosi sulla seggiola di fronte alla mia. M’infastidì che ci fosse un cane di nome Rocky sul pavimento dello shop di Genova.
“Perché vuole fare la commessa per il gruppo Jolie, Clementina?” le chiesi.
Lei mi guardò come se fossi stato un deficiente.
“Perché sto cercando un lavoro. Vivo con mia madre e con Rocky, loro hanno bisogno del mio aiuto. Non che sia l’ispirazione della mia vita fare la commessa, ma è pur sempre un buon lavoro. Quanto è che pagate qui?”
Roteai gli occhi per assicurarmi che Amanda non fosse svenuta, tirandosi dietro tutti i nuovi arrivi da poco appesi. Adesso sorrido, perché quella fu la prima lezione che mi diede Klemi. Mai separarsi dagli affetti. Mai scendere a compromessi. Quanti affetti avevo abbandonato fino ad allora? Avevo lasciato i miei nonni. Li sentivo poco, ci vedevamo una volta l’anno. Il genuino rapporto di amicizia tra me e Pierre si era trasformato in un asettico compromesso di lavoro, solo telefonate, email e budget. Avevo lasciato le mie montagne, non ricordavo nemmeno più quando era l’ultima volta che ero andato a camminare.
Chi ero diventato? Uno che si infastidiva che ci fosse un cane seduto sul pavimento. Pensai a Klemi tutta la notte, quella notte. Ai suoi occhi gialli, al suo essere così sincera, naif, al limite dell’hippy. Il giorno dopo decisi di assumerla: discussi con Amanda, la store manager, che non la voleva, ma la mia decisione fu irremovibile.
Dopo l’assunzione non vidi Klemi per un bel po’ di tempo. Stavamo aprendo punti vendita in tutto il nord Italia e quando ritornai a Genova, con rammarico misto a stupore, di fronte a me trovai un’altra persona. In scintillante divisa Jolie, niente più maglioncini infeltriti, un caschetto rosso rame che impreziosiva il volto caparbio, il naso importante, e gli occhi gialli truccati da una decisa linea di matita nera. A vederla mi sembrò di ingoiare un cubetto di ghiaccio. Così la evitai e di corsa andai fuori a pranzo con Amanda, che le cucì addosso molti elogi.
La piccola Klemì, come mi piaceva chiamarla, con l’accento sulla i, era cambiata. Molto. Forse Troppo.
La moda è un mondo strano, volubile, leggero, e lei si lasciò contagiare, divenne una splendida donna e si sposò con il suo Marco. La odiai tutto il tempo, il giorno del matrimonio, ma rimasi al mio posto. Avevo imparato a rispettare le regole del gioco.
Così mi sposai anch’io con Arianne, la mia fidanzata francese, mentre Klemi rimaneva seduta al tavolo degli ospiti. Non alzò il calice per brindare e non mangiò nemmeno una fetta di torta.
Klemi ed io ci incontravamo, ci separavamo, lavoravamo insieme, pranzavamo insieme, e Klemi diventava sempre più lontana da quella ragazzina che avevo conosciuto. Si rifece il naso, si cancellò le rughe intorno agli occhi e fece carriera fino a ricoprire per Gruppo Jolie il ruolo di area manager per tutto il nord Italia.
Fino a quando, un giorno, non sopportando più di parlare di cose inutili come il futuro dell’azienda di Pierre Lacroix, la baciai.
In un posto stupido, il magazzino del negozio di Genova dove l’avevo vista la prima volta. Era li, in piedi, ed io la presi per le spalle e appoggiai le labbra sulle sue. In bocca sentii il gusto della neve, dei prati, del fuoco del camino.
Una scossa mi percorse da capo a piedi, faticai a staccarmi da lei; ma ero un uomo sposato, con una corporation da portare avanti.
Anche Klemi era sposata, per questo mi ripromisi di non farlo più.
Ma il giorno dopo successe ancora, e il giorno dopo anche, ci baciammo per ore, senza parlare. Poi arrivò il suo corpo nudo, atletico ma sottile, il suo ombelico che ondeggiava sui miei fianchi, portandomi in uno stato di felicità che terminava non appena mi staccavo fisicamente da lei. “Sei qui Damien?”, mi diceva abbracciandomi, ed io ero lì, accanto a lei e in diecimila posti diversi con la mente. Lei non mi lasciava andare finché il suo cellulare, trillando, non la avvisava che era ora di tornare al lavoro.
Allora ritornavamo entrambi alla vita che avevamo scelto di vivere.
La nostra relazione andò avanti per mesi. Che cosa potevamo fare? Lasciare i nostri rispettivi partner? Metterci insieme, mandando a rotoli la carriera di uno o dell’altro? Lasciare tutto e portarla a vivere a St. Antoine Les Arcs dove sono cresciuto? Lavoravo, lavoravo sempre, e l’orologio andava anche al contrario, facevo colazione alle due di pomeriggio e mi mettevo a dormire che già albeggiava. Finii due volte al pronto soccorso per attacchi di panico, ma a Klemi dissi che avevo preso qualche giorno di ferie.
Fino ad una settimana fa, quando mi chiamò Pierre, ci vedemmo a Milano, cenammo insieme. Era ingrassato, aveva le occhiaie e portava un Rolex da sessantamila euro al polso. Mi chiese se me la sentivo di portare il Gruppo Jolie in Oriente. “Ho pensato di aprire il primo punto vendita a Singapore”. Questo bastò.
La notte la passai con Klemi e la sua carne e il suo sangue ebbero il potere di farmi ricongiungere con quel ragazzo spilungone, dagli occhi neri, che amava correre libero nei prati, fra le sue montagne. Quando, al mattino presto, il cellulare di Klemi suonò e lei uscì di casa per andare al lavoro, capii perfettamente che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei vista.
Chiamai Pierre e gli esposi le mie ragioni. Più o meno farfugliai che ne avevo abbastanza del Gruppo Jolie e che avevo bisogno di altro. “Sei un bastardo”, mi rispose lui, attaccando il telefono.
Nei giorni successivi ufficializzai le miei dimissioni, e stamattina ho lasciato l’alloggio in cui ho vissuto per diciassette anni.
Riporto lo sguardo sulla ragazza davanti a me, sul treno: stufa di aspettare una conversazione, si è addormentata. Klemi non l’avrebbe fatto. Lei mi avrebbe aspettato. Il treno intanto rallenta, dal finestrino vedo i cartelli con scritto “St. Antoine Les Arcs” e mi preparo a scendere.
Alla stazione respiro a lungo l’aria di montagna, rabbrividisco, non ci sono più abituato. Prendo un taxi per farmi portare alla casa dei miei nonni, l’ultima del paese, sul fianco destro dell’imponente monte Chanix. Quando la vedo spuntare, con il tetto aguzzo, da dietro la curva del viottolo, lo stomaco fa un balzo. “Mercì”, dico al taxista allungandogli una cospicua mancia. Poso la valigia sul marciapiede, e respiro. In silenzio. L’enorme prato, ricoperto di neve, davanti alla casa è come una tela. Bianca, immacolata, tutta da scrivere.
Non posso tornare indietro a quel giorno in cui Klemi arrivò con gli occhi gialli e il maglioncino infeltrito. Non posso cancellare le decisioni sbagliate. Non posso ritornare da lei e obbligarla a lasciare Marco. Ma posso ricominciare da qui, da questa tela bianca.
Sento il cane dei vicini ululare. Mi viene da sorridere, dopo così tanto tempo. Mi siedo sulla valigia, accendo una sigaretta e la fumo fino all’ultimo respiro, godendomi l’orizzonte.
Poi entro in casa: mio nonno, sulla sedia a rotelle, mi accoglie accennando un sorriso. “Damien, ragazzo”, dice, allungando le dita ossute verso di me. “Ben tornato a casa”. L’odore di legno e fuoco mi rilassa la mente.
“Sai che pensavo, nonno?”. Lui mi guarda, allarga gli occhi neri. “Domani prenderò un cane. Un border collie. Mi aiuterai a costruirgli un recinto?”
“Si, ragazzo”.
“E anche un percorso di agility?”
“Si”, sorride.
Lo sguardo di Klemi mi ritorna in mente, vivace, ostinato.
“Come lo chiamerai?”, chiede il nonno, allontanandosi verso la credenza.
“Lo chiamerò Rocky”.
Poi alza le braccia, prende due bicchieri e ci versa dentro il suo liquore alle erbe, l’ultimo che ha fatto, quando ancora riusciva a camminare in quota, alla ricerca delle erbe selvatiche. M’invita a sedermi al tavolo, vicino a lui.
“Rocky, hai detto? Mi sembra proprio un bel nome”.
(Dedicato a Stefania)
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