Quando la musica aveva il tempo di respirare, e noi con lei.
Davvero non si ha nemmeno più il tempo di ascoltare una canzone?
Si è schiavi dello skip, dei primi dieci secondi, di saltare direttamente al ritornello, di ascoltare la musica solo con il cellulare (dove ogni suono diventa piatto?
In radio, qualche giorno fa, Dragon Days di Alicia Keys mi è arrivata alle orecchie come un onda d’urto. E non mi ha solo raccontato la sua storia, il suo groove, ma mi ha fatto portato in un tempo che forse non esiste più. Quel tempo mi ha stappato le orecchie, mi ha gridato. Ascolta !
Così ho ascoltato: mi sono seduta con le cuffie. A mano a mano che la canzone procedeva, io pensavo: eppure non erano solo cuffie, erano un paio di Sennheiser che escludevano il mondo e ti catapultavano in uogni fruscio della canzone. Ancor prima erano casse, un impianto stereo vero, con i fili intrecciati dietro al mobile e la manopola del volume che girando faceva magie.
Ho aperto il mobile, ho ripescato il cd, quelli che si compravano fisici, con il libretto da sfogliare, le pagine che odoravano di stampa, i testi delle canzoni e le foto dell’artista in posa.
Mi ricordo che allora si ascoltava con calma. Non c’era fretta, non c’era lo skip. Il disco si infilava, e tu ti mettevi accanto, pronta a lasciarti raccontare.
Non è passato moltissimo tempo, o forse si, credo una ventina d’anni. Prima di Spotify, prima di I-tunes, forse il periodo in cui un mp3 gratis te lo dovevi guadagnare.
Il tempo in cui l’uscita di un album era un evento, ci si emozionava dentro il sapore dell’attesa, il tempo in cui le case discografiche costruivano campagne monumentali, come dimenticarsi HIStory di Michael Jackon, in cui si faceva la coda fuori dal negozio.
Ho continuato ad ascoltare Alicia Keys anche oggi, è un’artista che adoro, ma è come se gli ultimi album mi fossero scivolati addosso, veloci, senza entrare in profondità. Senza raccontarmi il fulcro.
Riascoltando Dragon Days oggi, dopo molto tempo, mi ha preso una specie di sensazione di profondità.
La canzone mi parlava in un modo diverso rispetto al modo in cui le canzone che ascolto oggi mi parlano. Ne potevo sentire ogni battito, ugni cambio di registro. La sua storia si intrecciava con la mia, ritrovavo emozioni comuni.
Qual è la differenza? Non che oggi non ci sia musica che non vale la pena ascoltare, anzi.
Ma tutto sta nella nostra disposizione all’ascolto profondo. Al voler darsi del tempo per comprendere profondamente una canzone, il racconto di un album, ciò che l’artista ha da dire, quello che tenta di condividere dal suo profondo.
Adesso tutto corre. Le canzoni si consumano una dopo l’altra, velocissime, e non restano. Siamo dentro una macchina che elabora dati senza tregua, e io stessa mi accorgo che la mia attenzione è sfuggente. Ascolto velocemente.
Non ha senso. (non hanno proprio senso le due parole messe insieme, ascoltare e velocemente. come si fa ad ascoltare velocemente?)
Però quando torna quel suono, quando riascolto con lentezza, mi accorgo che gli album di allora avevano un peso. Non perché fossero migliori in senso assoluto, ma perché noi sapevamo fermarci. Eravamo disposti a stare. E lì, in quello stare, nasceva la profondità.
Mi viene quasi da chiedere scusa alla tecnologia che oggi è un grande aiuto in tantissimi campi, da chiedere scusa alla velocità stessa che oggi mi regala comodità e risposte istantanee.
Eppure, per noi umani, non sempre è un bene. Abbiamo bisogno di lentezza. Per sentire davvero, per abitare quello che ascoltiamo, per non ridurci a superficie.
Forse dovrei farlo più spesso: rimettere un disco dall’inizio alla fine, senza toccare niente. Lasciarlo scorrere, lasciarmi raccontare.
Tornare a quando la musica aveva il tempo di respirare, e io con lei.
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