Ascoltare certe canzoni ti apre mondi ma se c’è un mondo del quale i puristi del rock non vogliono nemmeno sentire parlare, è quello della possibile connessione tra rock e pop.
Invece, proprio oggi, ascoltando i Led Zeppelin (Babe, I’m gonna leave you, 1969) quella connessione mi è balzata palesemente alle orecchie. Certi suoni, certe melodie, certi cantati, sono come radici sonore, forse invisibili, del pop moderno. E che il buon ascoltatore apra le orecchie, allora….
Ma chi ha inventato il rock and roll?
Questa è una domanda difficile ed è molto difficile rispondere.
Il rock and roll non è nato da una sola persona, ma è il frutto di un’evoluzione musicale che ha mescolato rhythm and blues afroamericano, country, gospel, jazz e musica popolare. Tuttavia, se dobbiamo cercare chi ha dato forma a quello che oggi chiamiamo “rock and roll”, ci sono alcuni nomi chiave, come Sister Rosetta Tape (che cantava il gospel con la chitarra elettrica), Chuck Berry (considerato il padre del rock and roll), Little Richard (con la sua Tutti Frutti) e certamente Elvis Presley, per averlo reso “fruibile” ai bianchi e per averlo sdoganato a livello mondiale.
Ma se penso al dopo Elvis, e se penso al grande pop moderno, mi vengono in mente tre grandi nomi, che fra i tanti esponenti, hanno contribuito in maniera definitiva alla creazione della storia della musica rock.
Il cuore: Janis Joplin
Janis cantava come se stesse morendo. Ogni volta. Ogni nota. Non c’era filtro, non c’era decoro. C’era solo una ferita viva che diventava suono. E in quella ferita si è riconosciuta una generazione intera, e quelle dopo — soprattutto le donne che, con il canto, reclamavano lo spazio che la società negava.
Nel suo corpo spettinato, nella sua voce ruvida e lacerante, c’era già tutto il seme di ciò che sarebbe diventato il pop femminile degli anni ’90 e 2000: la confessione emotiva di Alanis Morissette, la rabbia vulnerabile di Pink, la teatralità disperata di Lady Gaga, la cruda ironia di Amy Winehouse, la spregiudicatezza di Madonna.
Janis non ha fatto pop. Ma ha aperto una possibilità. Quella di usare il corpo per gridare, non per sedurre. Di scrivere canzoni come lettere mai spedite. Di essere scomoda, imprecisa, vera.
Il corpo: Led Zeppelin
Se Janis era il cuore che sanguina, i Led Zeppelin erano il corpo che vibra. Muscoli, desiderio, sudore e mito. Il loro rock non chiedeva il permesso. Era fisico, totalizzante, tribale e, al tempo stesso, incredibilmente elegante.
Con loro il blues si è fatto amplificatore di potenza. Non più voce del dolore, ma rito sonoro, orgasmico e primordiale. Il riff diventava colonna vertebrale. La batteria, battito animale. Robert Plant, con la voce che strappava l’aria, non cantava — evocava.
Era il corpo del rock che prendeva forma: longilineo, sensuale e scenico. Un modello che il pop degli anni ’80 avrebbe accolto in pieno, anche senza dichiararlo.
Cosa sono state le performance spettacolari di Freddie Mercury, o la sensualità di George Michael, la fisicità di Prince, se non eredità trasformate di quella stessa intensità scenica? E cosa sono state le ballate epiche da stadio degli Europe, dei Bon Jovi, dei Queen stessi, se non figli diretti di Stairway to Heaven?
I Led Zeppelin hanno insegnato che il rock (la musica) può essere esperienza fisica e mistica insieme. Che il palco è tempio, e il suono è carne.
La mente: Pink Floyd
Poi ci sono i Pink Floyd. Che non cantavano, non seducevano, non gridavano. Sospiravano. Costruivano labirinti. La loro musica era una mente che pensa, sogna, si perde.
Con loro il rock ha smesso di essere solo canzone, per diventare spazio mentale. The Dark Side of the Moon non è solo un album: è un viaggio psichico, un diagramma dell’ansia esistenziale. The Wall è una sceneggiatura sonora. Wish You Were Here è una lettera di nostalgia cosmica.
Hanno anticipato il modo in cui il pop degli anni ’80 e ’90 avrebbe iniziato a pensarsi come arte totale. Dal sound design dei Depeche Mode alle architetture visive di Peter Gabriel, dalla narrazione mutaforma di David Bowie alle sofisticazioni oniriche di Madonna, l’ombra dei Floyd si allunga ovunque.
E quando oggi ascoltiamo un album in cui ogni brano è un tassello di una storia più grande, dove il suono diventa spazio e tempo, non solo ritmo, siamo ancora là — nel cervello liquido dei Pink Floyd.
Michael Jackson, l’erede trasversale
E poi c’è lui.
Michael Jackson.
Che non ha mai fatto parte del pantheon classico del rock, eppure ha assorbito come una spugna il cuore, il corpo e la mente di quel linguaggio, trasformandolo nel più grande atto pop del secolo.
Nel suo canto c’era la ferita di Janis, quell’urgenza emotiva che faceva tremare la voce nei brani più dolenti — She’s Out of My Life, Stranger in Moscow, Earth Song.
Nel suo corpo c’era la potenza scenica dei Led Zeppelin, esplosa in una nuova grammatica del movimento: ogni gesto, ogni posa, ogni danza era suono diventato carne.
E nella sua mente — così sovraesposta e vulnerabile — c’era l’architettura visionaria dei Pink Floyd: concerti-concetto, videoclip-cortometraggi, dischi per il mondo intero.
Dangerous, HIStory, Ghosts: opere totali, fatte per pensare con tutti i sensi.
Michael non era un derivato del rock.
Era la sua altra evoluzione possibile: quella che si è nutrita delle sue radici invisibili per generare una nuova forma di pop teatrale, tragico, universale.
E forse è proprio per questo che, come loro, è stato amato fino all’idolatria e massacrato fino al martirio.
…il pop moderno
Da quando Michael Jackson è morto, il 25 giugno 2009, forse quel pop che camminava sulle fondamenta del rock è morto insieme a lui.
Non mi sento — e non credo di avere le competenze — per giudicare il pop dei giorni nostri (…sempre che esista ancora), ma sono convinta che oggi inventare qualcosa di nuovo sia estremamente difficile.
Forse c’è bisogno di qualcuno di straordinario, di visionario, di spregiudicato, proprio come lo sono stati gli artisti che ho citato fin qui.
Per ora, continuo a scavare nel passato per comprendere il futuro.
E in ogni canzone che ascolto, ci ritrovo qualcosa di già sentito, già visto, già sperimentato.
Provare per credere:
Basta mettere su una canzone qualsiasi di Janis Joplin, dei Led Zeppelin o dei Pink Floyd
per sentire che è già tutto lì.
Nel rumore ovattato di un palco, nel battito spezzato di un synth, nella luce che si spegne dopo l’ultima canzone.
Oggi il cuore del pop pulsa più piano, il corpo si muove per inerzia, la mente ha smesso di cercare.
Forse il pop non è morto.
Forse ha solo smesso di sognare
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