Si può davvero catturare la magia o rimane solo l’eco?
Dopo quarant’anni di devozione a Michael Jackson, un libro scritto sulla sua vita (Michael Jackson: L’Agnello al Macello) e innumerevoli ore trascorse a studiare la sua arte, sono entrata al teatro con la curiosità di chi conosce ogni respiro e ogni passo del Re del Pop.
Le recensioni entusiastiche su Sergio Cortés avevano alzato le aspettative. Quello che ho trovato ieri sera al teatro Alfieri di Asti è stato uno spettacolo professionale che oscilla tra momenti di genuino tributo e i limiti inevitabili di chi cerca di incarnare l’inimitabile.
I Meriti di una Produzione Ambiziosa
Va riconosciuto il coraggio di Cortés: due ore di spettacolo completamente dal vivo non sono un’impresa da poco. La band è eccellente, con un sound che rispetta gli arrangiamenti originali pur mantenendo freschezza. Le scenografie colpiscono per qualità e attenzione ai dettagli, mentre la scaletta è costruita con intelligenza, seguendo il crescendo emotivo tipico dei concerti di Jackson.
La voce di Cortés merita una menzione particolare. Cantare Michael Jackson è un’impresa quasi impossibile, eppure Cortés dimostra capacità vocali notevoli. In brani come “You Are Not Alone” e “Black or White”, riesce a veicolare l’emozione necessaria, mentre in “Will You Be There” il monologo finale tocca corde genuine.
I Limiti Fisici e Artistici
Tuttavia, c’è un aspetto che non si può trascurare: la differenza fisica tra Cortés e Jackson è troppo evidente per essere ignorata. Michael Jackson era alto un metro e ottanta, con proporzioni uniche – gambe lunghissime, braccia che sembravano estensioni dell’anima. Cortés, più minuto, inevitabilmente perde quell’impatto scenico che rendeva Jackson una presenza magnetica sul palco. Non si tratta di un giudizio estetico ma di presenza scenica: stiamo parlando di uno show dove il corpo è uno strumento espressivo fondamentale.
Il ballo, elemento cardine dell’eredità jacksoniana, risulta il punto più debole. Ho visto Cortés stanco, che eseguiva più che vivere le coreografie. I movimenti apparivano rallentati, privi della precisione chirurgica che caratterizzava ogni gesto di Michael. Nella mia lunga esperienza a contatto con Michael, ho assistito a tribute artist meno celebrati che hanno catturato meglio l’essenza cinetica di Jackson.
Scelte Artistiche Discutibili
Alcune decisioni artistiche lasciano perplessi. “Dirty Diana” è troppo personale, troppo visceralmente Michael per essere replicata – il risultato è stato deludente sia vocalmente che coreograficamente. Anche “Billie Jean”, nonostante l’entusiasmo del pubblico, mancava di quella forza esplosiva che ne fa un momento culminante nei concerti originali.
La sezione dedicata ai Jackson 5, seppur piacevole, non catturava la grinta feroce del piccolo Michael, la tensione tra infanzia rubata e professionalità precoce che rendeva quelle performance così toccanti anche quando eseguite dall’adulto Jackson.
Momenti di Grazia (consapevole)
Eppure, ci sono stati momenti di autentica connessione. La scelta di affidare “Earth Song” alla cantante della band (dotata di una potente voce soul) è stata intelligente e rispettosa. Il momento più toccante è arrivato durante “Bad”, quando Cortés ha improvvisato un riferimento alle guerre attuali, cantando a cappella “Who’s bad / You’re doing wrong” – un gesto che Michael stesso avrebbe probabilmente apprezzato.
Un Finale che Divide
La chiusura con “Man in the Mirror” era inevitabile ma rischiosa. Chi conosce la potenza gospel, la forza di denuncia e autoriflessione di questo brano nei concerti originali (il Dangerous Tour, disponibile in DVD, che consiglio a tutti di guardare, ne offre un esempio magistrale) non può che sentire il divario. Mentre il pubblico si alzava in piedi, io rimanevo seduta, chiedendomi se stessimo assistendo allo stesso spettacolo.
Forse sarebbe stato meglio ringraziare
C’è però un’omissione che mi ha colpito profondamente: l’assenza di un ringraziamento esplicito a Michael Jackson. Nessun momento dedicato, nessuna foto sul maxischermo, nessun tributo verbale all’uomo che ha reso possibile tutto questo. Michael Jackson non è solo l’artista che Sergio Cortés interpreta – è il genio che ha rivoluzionato la storia della musica, che ha creato il linguaggio artistico che questo show cerca di replicare.
Se Sergio Cortés può esistere come performer è grazie a Michael. Se migliaia di persone riempiono i teatri per questi tribute show è per l’eredità indelebile che Jackson ha lasciato.
Merito a Cortés per portare avanti questa eredità, per permettere a chi non ha potuto vivere Michael dal vivo di assaporarne almeno un riflesso. Ma proprio per questo, un momento di riconoscimento, di gratitudine verso l’originale, sarebbe stato non solo appropriato ma doveroso.
Dov’è finita la magia?
Forse è proprio questa assenza di riconoscimento a contribuire alla sensazione di freddezza che ha permeato lo spettacolo. Ai concerti di Michael Jackson venivi letteralmente investito da un’onda di amore e magia – qualcosa di palpabile, che trascendeva la performance tecnica. Qui, quella connessione emotiva profonda non è mai davvero scattata, almeno per me. Lo show è rimasto un esercizio di stile ben eseguito, ma privo di quella scintilla spirituale che trasformava i concerti di Michael in esperienze quasi mistiche.
Secondo me, per concludere
Sergio Cortés offre quello che probabilmente è il miglior tributo possibile a un artista impossibile da replicare. Il suo show vale il prezzo del biglietto per la produzione di qualità, la band e i ballerini eccellenti e lo sforzo genuino di onorare l’eredità di Jackson. Ma per chi ha nel cuore e negli occhi il vero Michael, rimane la consapevolezza che alcuni miracoli artistici sono irripetibili.
Sergio Cortés con la sua Michael Jackson Experience ci ricorda che possiamo celebrare Michael Jackson, ma non possiamo resuscitarlo. E forse, in fondo, è giusto così.
Purché non dimentichiamo mai di ringraziare l’originale, senza il quale nulla di tutto questo esisterebbe.
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